Celeste era la vena da santa di mia zia
celesti le sue mani di legno, il fosso, là
dove sbatteva uomini e lino, figli e buoi
celesti per le mosche del grano.
Un po’ sul blu, le sei di pomeriggio in aprile.
Un po’ chissà
le tre della mattina che chiusa stava su
a bersi un sonno mandorle e baffi.
Di poesia, ce n’era mica tanta, Celeste però si
veniva con la bici e metteva l’allegria
insieme a mille lire sul tavolo. Mia zia
vendeva uova calde e bestemmie, liturgie
di cose fatte a mano e sudate. Si, allegria
Celeste la spandeva in cortile e dentro me
col riso sulla bocca di quelle di città
i denti come barche a ponente, laghi blu
i suoi occhi sul manubrio che governava un po’.
Celeste era il berretto di zio, la Citroen
le marce da moschetto, e la nafta dentro il box.
Celesti le sottane alle suore, in terital
un ordine moderno per via di siccità.
Celesti anche i grembiuli al lavoro di Ferial
veniva da Alessandria d’Egitto, dall’idea
che qui potesse crescere meglio i figli suoi.
Celeste è il fiorellino di prato di noi due
il vento che si specchia nei treni, l’ora tua
che chiusa dentro il bagno fai tardi, e vieni giù
soltanto quando tutta la donna è sveglia in te.
Massimo Botturi
belle emozioni, poetica celestiale che fa sognare, habitat del cielo…
@.
Si rimane incantati
Tinti