Bonifica il mio cuore
che par palude e fango,
ho canne conficcate ai piedi,
aceto sulla bocca,
baci di Giuda
a tradire la pelle mia.
E cade acida
la pioggia sulla casa delle paure
lasciando l’odore di orti
dagli occhi vuoti.
Pescatori in riva al fiume
parlano di donne andate via
e oggi anche i pesci son morti
assieme alle navi del porto,
balene grigio acciaio
spiaggiate sul mare
ad accompagnare i giorni dell’addio.
Ho chiesto una preghiera
in prestito a dio
che avesse il colore del grano
per vederti tornare
nelle messi di giugno
gravide di spighe e pane,
ma cade sulla strada la mia fede,
un digiuno questa notte
fatta di uomini in croce
che non vogliono perdonare
le mani mie vuote,
bianche di neve
e non ho più fiato di gridare,
persa nell’ombra la voce.
Bonifiche
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Dove sono le tue poesie capitano?
Dove sono le tue poesie capitano?
Dove sono finite?
Sono andate con i baci
per le strade
a raccogliere i fiori sparsi
delle processioni,
sono andate via con la paura
delle notti insonni,
hanno preso valigie e treni
su binari morti,
sono andate a cercare una donna
che canta canzoni di guerra e partigiani,
la donna degli argini
che ha bocca di spiga e arancia,
sono andate al fiume
a veder la pelle della luna
scorticarsi nell’acqua,
sono venute a sentire il sangue
che mi scorre nelle vene
quando mi parli d’amore,
quando il ramo del tuo salice
sale la fredda corrente.
Oh capitano, mio capitano!
Io vedo un ponte laggiù in fondo,
sì lo vedo,
un ponte di una città
a unire le nostre sponde.
Lo vedi tu?
Pare Genova o Napoli
quando le navi gridano dolore
e forestieri nudi hanno sete
di casa e Africa,
e io piango i bambini
dalla pelle scura,
piango i bambini
di tutto il mondo
e le tue poesie
mi scavano le ossa,
sì, le tue poesie seminate
nei campi grigi
di questa terra malata.
Oh capitano, mio capitano!
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Il canto delle officine

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Il poeta meccanico
E il meccanico
fa il poeta
quando chiude l’officina,
tra le mani il foglio
di unto e catena
e di notte scrive
preghiere per la Dora,
di fiori e davanzali i suoi regali
quando lei passa con la bici
e mostra la sottana
e tutto quel che ha sotto all’aria,
le gambe sotto il lampione
lucciole e lampone,
anche la pioggia le somiglia,
ha pelle di vaniglia
e quando è distesa
pare neve caduta sul mare.
Le scale le terrazze
le rondini sanno di te
oh, mia Dora,
femmina dai cento cuori
ferma e chiara come aurora.
E sogna il meccanico
che un giorno
una voce di donna
canti la brina
l’erba la casa
il mosto in cantina.
Che possa sapere di Dora
anche la strada antica
quella che i vecchi
conoscono di sera la solitudine
di non aver fianchi da stringere
e seni da baciare
e dentro il letto
stendendo poi le gambe
a trovar compagnia
di prato e glicine
e la rosa nuda
tutta da scaldare.
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Nella pioggia con Emily
Quel giorno di marzo
la pioggia ci chiamava
all’albero segreto,
dietro il cielo stava
l’inverno straripato,
il prato faceva l’amore
con la pelle degli innamorati,
il fiume ammalato
piangeva il bel tempo
dei ragazzi sugli argini in fiore.
Emily aveva collane di ranuncoli,
poesie di api e rondini
e da bere tramonti nelle tazze,
metteva ramoscelli di menta
e rosmarino ai fianchi,
si ballava con l’erbe dei campi,
si cantava la gioia delle nuvole.
Il temporale ci accompagnava
con l’antico suono della pioggia sul tetto,
concerto d’acqua sui tratturi grigi
dai bagnati carri stanchi.
Io capivo che dovevo scrivere
lettere d’amore alle mie terre
che mi avevan vista nascere
e poi un qualsiasi giorno anche morire.
Difendevo il sole e i versi di Emily
e i nostri due cuori
nel gioco giallo del tramonto
parevan due stelle impigliate
all’albero nuovo di foglie scherzose
venute al vetro della casa
a battere gocce d’amore.
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Le mie gambe fredde di paura
Ho paura dei silenzi che mi dai
tra il muro la calce e la fatica
io non vedo costruire
che mattoni di vergogna,
sento solo quest’aria di morte
che mi soffia sul collo
e altri han ben deciso
ché si son visti rovinati
e una corda alla gola
o un volo dalla finestra
pareva meglio di questa vita.
Tremo di paura
e taccio nella notte,
penando le ore
nel sentir bussare alla porta
e poi lettere senza fiatare
di scritture incomprensibili
e debiti da scontare
neanche avessimo rubato,
i polmoni tuoi invece per anni
veleno han respirato.
Voglio solo che il coraggio
mi prenda un giorno
le gambe mie stanche
assieme alla voglia di scappar via,
io e te potremo andar lontani,
quel baracchino davanti
all’azzurro mare
che abbiam sempre sognato
e mandare tutto all’aria.
Via, via da questo paese,
da questa Italia che non regala
né dignità, né cuore
che ci ha mandato in rovina,
i sacrifici a puttane
e non abbiam messo via niente
nemmeno due stanze
per il figlio nostro bello di sole
e sto qui a marcirmi il sangue
ogni santo giorno, tirando la cinghia
e a tentar di mandar giù ‘sto magone.
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Il delfino
Era la libertà del delfino
il sogno del vecchio bambino
che amava le terre sue di solitudine,
la patria delle colline selvagge
e il mare nostro come inchiostro.
Il delfino poeta scriveva
sul lenzuolo del mare,
tracciava mappe, rotte antiche
e di rose venute dal sale viveva
stringendo la sua sirena
nell’aria azzurra della riva.
Correva sulle strade del cielo
l’aviatore con il suo brevetto d’amore,
conosceva le nuvole una ad una
e un giorno sarebbe arrivato
alla spiaggia della ragazza
che aveva capelli di sabbia dorata,
la bocca una lettera rossa
di baci e notizie,
le avrebbe insegnato a volare
guardando i fenicotteri rosa
dalle ali del suo aereo,
le mani d’esilio a stringere
un canto di vicinanza,
e là dove la terra diventa acqua
dove il fiume diventa mare
una capanna li avrebbe accolti,
avrebbero pescato pesci azzurri
da navi di memoria dimenticati
e sotto la scaglia del sole
si sarebbero infine amati.
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I miei giorni da occhi di cielo
Andavamo a cogliere
gli occhi di Maria
per avere una giornata tutta azzurra,
quel piccolo fiore fragile
come noi bambine d’ossa
e ginocchia sbucciate,
con quelle biciclette
regalate per la Cresima
lungo le salite della ferrovia
ché i treni sono stati la nostra vita
e i vagoni mezza casa.
Lungo le scarpate si andava a viole
con il sole in bocca
e marmellata sulle labbra,
un panino per non morir di fame
nell’età del misurarsi al muro.
Noi che siam state
le bambine beneducate
alzate di buonora
per la messa alla domenica
– con permesso, buonasera –
sulle dita piene di bugie
che non sapevamo tenere per un’ora
e ancora non conoscevamo
le ortiche degli anni a venire
ché noi avevamo solo pensieri di fiori,
il vento tra i capelli,
un vestito leggero per Pasqua
pareva confetto di rosa
e una fettina di cioccolato bicolore
di poca cosa.
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Fuochi d’inverno

di un sorriso tenue
che scioglierà
la neve dei miei abbracci.
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Il volo del colibrì

Il colibrì spiccò il volo raggiunse il teatro del silenzio si posò alla terrazza del poeta e intonò il suo canto d’amore, liberato il dolore dalle stanze raggiunse il bosco dei faggi le sue ali erano foglie nel vento all’albero della malinconia, l’usignolo delle carezze usò le sue piume per il nido del colibrì e piansero assieme la loro solitudine lungo i fossi dei gigli bianchi, portami ancora tutto di te anche le tue voglie stanche che io possa ingannare il dolore e sentire le mie mani felici nei versi che muovo nell’aria di questa estate che mi vede nuova che mi vede come colibrì.
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