
Il frutto della notte ormai scarnito,
senza più profumi d’ammaliare,
era come l’ombra della mia parola:
il sole la passava senza storia.
Dell’albero dei sogni e dell’incanto
decisi allora, di partire alla ricerca,
per cogliere dai rami in ogni istante
bocconi di pensieri inebrianti.
I passi s’inseguivano, come i grani di un rosario
e vergavano ogni giorno le parole del diario.
Ma in quell’azzurro alieno, dai mille drappi pieno,
la mia bandiera fiera, non copriva alcun baleno.
I paesi si lasciavano violare
da sguardi miei da brame appesantiti,
dai battiti e richiami del mio cuore,
che sfioravano dei sogni già appassiti;
e quando mi pensavo ormai perduto
convinto di restare a mani vuote,
lo vidi in quell’angolo di piazza,
promettere la sabbia ai pugni chiusi.
Gli occhi miei stupiti, non sapevan di sapere,
che tutte quelle gocce era un mare di chimere.
Gli occhi miei velati e di promesse ormai sopiti,
non conobbero in quei grani, dei sussurri già sentiti.
I gusci, dalle anime svuotati
ruzzolavano nel vento della sera,
con le loro bocche tonde, spalancate
che sembravano gridare di stupore:
“Dov’è, dov’è finito il nostro cuore?
Oh, mio Dio, aiuto, per favore!
L’abbiamo barattato per tre soldi
ed ora lo vorremmo riscattare”
E l’albero dei sogni e dell’incanto
se ne stava, come tempo, lì a passare;
Era lì, palpitava al loro fianco,
ma nessuno si sapeva avvicinare
E l’albero dei sogni e dell’incanto
se ne stava, come libro mio vitale;
era, crudo, tutto scritto, lì al mio fianco.
Ripartii, per riscriverne il finale.
Flavio Zago