Io non amo la gente perfetta,
quelli che non sono mai caduti,
che non hanno mai inciampato.
La loro è una virtù spenta,
di poco valore,
a loro non si è svelata
la bellezza della vita.
BORIS LEONIDOVIČ PASTERNAK
Io non amo la gente perfetta,
quelli che non sono mai caduti,
che non hanno mai inciampato.
La loro è una virtù spenta,
di poco valore,
a loro non si è svelata
la bellezza della vita.
BORIS LEONIDOVIČ PASTERNAK
Anima mia che trèpidi
per quelli che mi attorniano,
sei divenuta il lòculo
dei martoriati vivi.
Imbalsamando i corpi,
cantandoli in poesia,
rimpiangendoli tutti
con singhiozzante lira,
nel nostro tempo egoistico
per scrupolo e paura,
come urna funeraria
tu ne ospiti le ceneri.
Gli spasimi comuni
ti hanno prostrata. Odori
del limo cadaverico
di tombe e di obitori.
Anima-sepoltura,
tutto quello che hai visto,
tritando come màcina,
hai mutato in mistura.
Continua a macinare
quello che mi
è accaduto,
come da quarant’anni,
nell’umo di un ossario.
BORIS LEONIDOVIČ PASTERNAK
Dalla soglia un uomo guarda,
la casa non riconosce.
La partenza di lei fu come fuga.
Ovunque tracce di scompiglio.
Dappertutto nelle stanze il caos.
La portata della devastazione egli
non vede a causa delle lacrime
e di un attacco di emicrania.
Negli orecchi dal mattino un rumore.
Ricorda o sogna?
E perché nella mente sempre più
gli s’insinua il pensiero del mare?
Quando ai vetri attraverso la brina
non si vede la luce di dio,
doppiamente l’angoscia ineluttabile
somiglia alla solitudine del mare.
Gli era così cara
con ogni lineamento,
come al mare vicine le rive
con la linea tutta della risacca.
Come i giunchi sommerge
la piena dopo il fortunale,
sono scomparsi sul fondo della sua anima
i tratti e le forme di lei.
In anni di travagli, in tempi ,
di vita impensabile
fu a lui su dal fondo sospinta.
dall’onda della sorte.
Tra ostacoli innumeri,
superando i pericoli,
l’onda la portava, portava
e strettamente congiunse.
BORIS LEONIDOVIČ PASTERNAK
È un fischio che si estende acuto d’improvviso,
è lo scricchiolio di ghiacci soffocati,
è la notte che fa intirizzire la foglia,
il duello di due usignoli.
È il tonfo soave del pisello,
è l’universo in lacrime in un guscio,
è Figaro – dal podio e dai flauti –
che si frange come grandine sull’aiuola.
È quel che la notte deve ricercare
Sul fondo oscuro delle vasche,
e la stella porgere al vivaio
coi palmi umidi e tremanti.
Più piatta di una tavola è l’afa.
Il firmamento è travolto dall’ontano,
toccherebbe alle stelle esplodere in risate.
Ma l’universo è un luogo spento.
BORIS LEONIDOVIČ PASTERNAK
In un’illusoria bellezza invernale
dormicchia la rada tra la foschia dell’alba,
sonnolenta avvolgendosi nella caligine
col suo viluppo di alberature
e bagnandosi, come nella guazza,
con i pennoni ondeggianti
nell’argento e nella madreperla
dei fanali quasi morenti.
Striscia appena appena
il mareggio del mattino.
Ogni sussurro appena percettibile,
quanto più fievole, quanto più piccolo,
si ripercuote con un tremito,
nel corpo delle navi.
BORIS LEONIDOVIČ PASTERNAK
Così si comincia. Verso i due anni
ci si strappa alla balia per le tenebre delle melodie,
si cinguetta, si fischia, le parole
compaiono verso il terzo anno.
Così si comincia a capire.
E nel fragore di una turbìna in moto
ti sembra che tua madre non sia tua madre,
che tu non sia tu, la casa un paese straniero
Che può fare la terribile bellezza,
seduta su una panca di serenella,
se non realmente rubare bambini?
Così hanno origine i sospetti.
Così maturano le paure. Come potrà consentire
a una stella di superare il suo limite
lui che è un Faust, lui che è fantasioso?
Così cominciano gli zingari.
Così si schiudono librandosi in aria
sopra le siepi, dove dovrebbero stare le case,
mari improvvisi come un sospiro.
Così cominceranno i giambi.
Così le notti estive, cadute bocconi
fra le avene supplicando: avvèrati,
minacciano l’aurora con la tua pupilla.
Così si attacca lite con il sole:
Così si comincia a vivere di versi.
BORIS LEONIDOVIČ PASTERNAK
Strappando i cespugli su di sé, come laccio,
più violaceo delle labbra serrate di Margherita,
più ardente del bianco dell’occhio di lei,
palpitava, trillava, dominava, raggiava un usignolo.
Come profumo emanava dall’erba. Come mercurio
di piogge insensate era tra i ciliegi selvatici sospeso.
Frastornava la corteccia. Ansando, alla bocca
si avvicinava. Rimaneva appeso alla treccia.
E, quando con mano stupita passando
sugli occhi, era attratta dall’argento Margherita,
sembrava allora, che sotto l’elmo di rami e di pioggia
fosse caduta senza forze l’amazzone nella pineta.
E la nuca con una mano nella mano di lui,
e l’altra piegata all’indietro, dove giacque,
dove s’impigliò, dove si appese il suo elmo d’ombra,
strappando i cespugli su di sé come laccio.
Febbraio.
Dove, come pere incenerite,
dagli alberi mille cornacchie
cadranno nelle pozze rovesciando
una secca mestizia sul fondo degli occhi.
Nereggiano di sotto gli spazi disgelati,
e il vento e solcato dai gridi,
e quanto più a caso, tanto più esattamente
si compongono i versi a singhiozzi.
Ho sognato l’autunno nella penombra dei vetri,
gli amici e te nella loro burlesca schiera,
e come falco dal cielo, che sangue s’è procacciato,
picchiava il cuore sulla tua mano.
Ma il tempo trascorreva, e invecchiava e assordiva,
e di damasco inargentando gli infissi
l’aurora del giardino inzaccherava i vetri
delle sanguigne lacrime di settembre.
Ma il tempo trascorreva e invecchiava. E friabile
come ghiaccio si fendeva e fondeva la seta delle poltrone.
Di colpo tu, sonora, troncasti e ammutolisti,
e il sogno cessò, quale eco di campana.
Mi risvegliai. Come autunno era buio
l’albeggiare, e il vento, allontanandosi, portava
come dietro a un carro pioggia fuggente di pagliuzze,
una schiera di betulle fuggenti per il cielo.
BORIS LEONIDOVIČ PASTERNAK
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