Siamo qui
Far finta di essere sani
Vivere, non riesco a vivere
ma la mente mi autorizza a credere
che una storia mia, positiva o no
è qualcosa che sta dentro la realtà.
Nel dubbio mi compro una moto
telaio e manubrio cromato
con tanti pistoni, bottoni e accessori più strani
far finta di essere sani.
Far finta di essere insieme a una donna normale
che riesce anche ad esser fedele
comprando sottane, collane, creme per mani
far finta di essere sani.
Far finta di essere…
Liberi, sentirsi liberi
forse per un attimo è possibile
ma che senso ha se è cosciente in me
la misura della mia inutilità.
Per ora rimando il suicidio
e faccio un gruppo di studio
le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani
far finta di essere sani.
Far finta di essere un uomo con tanta energia
che va a realizzarsi in India o in Turchia
il suo salvataggio è un viaggio in luoghi lontani
far finta di essere sani.
Far finta di essere…
Vanno, tutte le coppie vanno
vanno la mano nella mano
vanno, anche le cose vanno
vanno, migliorano piano piano
le fabbriche, gli ospedali
le autostrade, gli asili comunali
e vedo bambini cantare
in fila li portano al mare
non sanno se ridere o piangere
batton le mani.
Far finta di essere sani.
Far finta di essere sani.
Far finta di essere sani.
Filo
Cuore
mio
devo riprendere
a tessere
ritrovare le fila
di passeggiate
tra noi
dentro
una tazza caffè
immaginare la tela
radiosa del futuro
ed essere
così virtuosa
da non aspettare più
nessun
Ulisse
piuttosto imparare
tutte
le lingue del mondo
per gridare il mio
dolore
fino in fondo
e poi
risalire come da un pozzo
verso la vita che
è il pane da comprare
ed il
latte fresco perchè alle femmine va bene
e la ginestra da baciare di
gocce dolci
quelle del pianto di sera
e sbattere sabbia dai tappeti
quella del deserto dentro.
Forse viene fuori
dal nostro dirci dentro
un abito
da sposa?
E Maria rispose
Cuore nel mio cuore
che mi sei
entrata
dentro
come se t’avessi conosciuto
in altre vite
io vorrei
unire il mio
al tuo dolore perchè
nonostante il tempo
che passa
non si
placa un
minuto
forse è questo mettere in fila
parole
che passano dal
cuore alla
testa alle mani
che ci unisce più del sangue
più del ventre
più delle
mani se fossimo vicine
io non lo so ma vorrei
il tuo dolore
per farne
pane
a sfamare
acqua a dissetare
per dare un senso
al fiore e
alle api
a figli voluti a quelli negati
alla vita come alla morte
per
continuare
a vivere
senza farmi altro male
Viandare sui poggi
dove satura la ginestra
esplode nel giallo.
Cipressi in fila
guardiani delle vigne
del tremulo papavero
sul ciglio.
S’apre la valle
in conca di colori
nell’azzurrino
degradar dei monti.
Nell’aria palpiti
profumi
e in questa vastità
sublime è l’anima.
Dove sei…?
Dove sei i miei occhi non riconoscono i tuoi colori le mie mani un tempo prensili ora sono di neve, dove sei sopra la mia vita c’è il sole ma non riscalda non illumina sembra la predica di un prete la domenica, buona per pochi minuti di devozione e poi di nuovo fuori nell’abisso dell’orrore, insieme a gente che si mette in fila con me regge sulle spalle la fatica che rinnova la sua, gente che sale e scende scale e sbaglia stazione e mette le mani dove vuole e non si commuove e non mi commuove e tu dove sei. Io ho orecchie che sentono falsi suoni mi invitano a feste ma non ho più compleanni, se ti muovi a scatti è difficile che ti prenda, se mi mandi fiori è possibile che non ne sappia i nomi, dove sei. Guardo sempre sulle fermate dei Bus di auto tue non ne servono al traffico al brusio delle api davamo più ascolto ma era altro tempo, era altra vita, adesso mi scrivo i discorsi da farti e sbaglio tutte le parole, forse per quello che vorrei dirti nemmeno esistono ma almeno chiederti, dove sei?
Amico fragile
Evaporato in una nuvola rossa
in una delle molte feritoie della notte
con un bisogno d’attenzione e d’amore
troppo, “Se mi vuoi bene piangi ”
per essere corrisposti,
valeva la pena divertirvi le serate estive
con un semplicissimo “Mi ricordo”:
per osservarvi affittare un chilo d’erbba
ai contadini in pensione e alle loro donne
e regalare a piene mani oceani
ed altre ed altre onde ai marinai in servizio,
fino a scoprire ad uno ad uno i vostri nascondigli
senza rimpiangere la mia credulità:
perché già dalla prima trincea
ero più curioso di voi,
ero molto più curioso di voi.
E poi sorpreso dai vostri “Come sta”
meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci,
tipo “Come ti senti amico, amico fragile,
se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te”
“Lo sa che io ho perduto due figli”
“Signora lei è una donna piuttosto distratta.”
E ancora ucciso dalla vostra cortesia
nell’ora in cui un mio sogno
ballerina di seconda fila,
agitava per chissà quale avvenire
il suo presente di seni enormi
e il suo cesareo fresco,
pensavo è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra.
E poi seduto in mezzo ai vostri arrivederci,
mi sentivo meno stanco di voi
ero molto meno stanco di voi.
Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta
fino a farle spalancarsi la bocca.
Potevo chiedere ad uno qualunque dei miei figli
di parlare ancora male e ad alta voce di me.
Potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo
con una scatola di legno che dicesse perderemo.
Potevo chiedere come si chiama il vostro cane
Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero.
Potevo assumere un cannibale al giorno
per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle.
Potevo attraversare litri e litri di corallo
per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci.
E mai che mi sia venuto in mente,
di essere più ubriaco di voi
di essere molto più ubriaco di voi.
FABRIZIO DE ANDRÉ
Tirando le somme
Avrei voluto comprendere
una finestra più in là
oltre a quel cortile
di passi anonimi
e “buongiorno” bisbigliati
dell’anziana vicina
che stende sorrisi
e coperte colorate
O un naso più in giù
in fila con le formiche
ai piedi delle verdi pareti ,
mossi dalla brezza
[l’erba dei prati in primavera ]
e di rugiada .
Se avessi potuto, ora avrei
nei capelli
un catino di luna rovesciato
e nelle tasche
qualche centesimo
di certezza in più.
Stati d’animo
Scalda l’amor come incendio infocato,
nulla è più eterno dell’aver amato.
La solitudine la bocca cuce,
prende per mano e lontano conduce.
Malinconia, frignona, struggente,
piange i ricordi ed ignora la gente.
Gioia negli occhi, gioia dentro, intorno.
Due fila di denti ridono al giorno.
Vuoto esteso ovunque, dappertutto,
negli occhi serrati lo sguardo a lutto.
Rabbia che irrompe con furia s’accende,
fuoco che brucia, che avvampa e offende.
Pace che plana, a larghi giri, lenta,
che tutto avvolge come una placenta.
L’odio corrode consuma atterrisce,
l’odio devasta offende ferisce.
L’indifferenza gela la parola
tacitamente come un groppo in gola.
E l’inquietudine, sai come morde?
Mormora invano a mille voci sorde.
Al Dio d’amore
Dio d’Amore non ti mancò sangue né carne, ora non dare più figli al mondo, taci di notte ma di giorno grida tutto il dolore ché le piaghe son tante e gli occhi appicccicosi, pieni di mosche fa’ che non li debba più vedere nessun uomo, su un altro uomo. Dio d’Amore non ti mancarono guerre né vite in dono, sacrificate al tuo nome, fa che non debba più vedere corpi scheletrici in fila per un tozzo di pane, o vite stroncate fatte a pezzi e mai riconosciute, fa’ che non debba vedere gente migrare verso altri fuochi da chiamare case, fa’ che questi occhi che si avviano verso la fine di ogni umana comprensione, non debbano più vedere vite di donne feti o bambini perdute e consumate, fa’ che non debba più vergognarmi dell’egoismo dell’uomo sull’uomo, io così umana da morire e voler ritornare alla polvere come all’inizio di ogni storia, feto femmina animale e uomo a futura memoria.
Schieramenti
il mio dolore ha tasche bucate
non si contiene
talmente è forte
rosicchia da lontananze
come vecchie carcasse
venute ad ammuffire
tra la mia carne
fiacca e deceduta
si perdono i miei muscoli
tra le pieghe impoverite
di refresh senza ritorno
cedevoli
all’ago che entra a vuoto
e il sangue non fluisce
come ai tempi d’oro
stanco s’appiattisce
nelle arterie desolate
globuli impazziti si armano
di rivitalizzanti
tenendosi per mano
sfidano il tracollo
e dirottano l’uscita
– che sia la volta buona?-
intanto in fila, incolonnate
procedono per vie traverse
cellule ambite da nuova speranza
cieca per me
se poi precipita nell’immagine
migliore
che non sa riconoscere.