Siamo qui

 
Siamo qui
in fila perfetta
a dispetto
di chi non ci rispetta
siamo in tanti
a spogliare la notte
 a rivestire il giorno
a investire in segnali di pace
a indossare la bandiera del vero
che appare sempre più misera e lisa
agli occhi di chi ce la vuole sporcare
sfilacciata dalle bombe dei morti innocenti
tradita da loschi intrallazzi di potere
rubata da mani che del lavoro non conoscono il pregio
insozzata dalla nera piovra che ha tentacoli
dappertutto anche dove non lo sospetti
siamo qui ancora a cantare, a lottare, a sperare
mentre “loro” per non affogare
sono costretti ai più vili mestieri
detrattori di un sogno e di una vita
faccendieri logorroici e insulsi
prostitute d’alto bordo
che del mestiere ne fanno una sola ragione:
togliere a te l’aria per respirare
per ridurti come “loro”
sporco e in gabbia.

Roberta Bagnoli

Far finta di essere sani

Vivere, non riesco a vivere
ma la mente mi autorizza a credere
che una storia mia, positiva o no
è qualcosa che sta dentro la realtà.

Nel dubbio mi compro una moto
telaio e manubrio cromato
con tanti pistoni, bottoni e accessori più strani
far finta di essere sani.

Far finta di essere insieme a una donna normale
che riesce anche ad esser fedele
comprando sottane, collane, creme per mani
far finta di essere sani.
Far finta di essere…

Liberi, sentirsi liberi
forse per un attimo è possibile
ma che senso ha se è cosciente in me
la misura della mia inutilità.

Per ora rimando il suicidio
e faccio un gruppo di studio
le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani
far finta di essere sani.

Far finta di essere un uomo con tanta energia
che va a realizzarsi in India o in Turchia
il suo salvataggio è un viaggio in luoghi lontani
far finta di essere sani.
Far finta di essere…

Vanno, tutte le coppie vanno
vanno la mano nella mano
vanno, anche le cose vanno
vanno, migliorano piano piano
le fabbriche, gli ospedali
le autostrade, gli asili comunali
e vedo bambini cantare
in fila li portano al mare
non sanno se ridere o piangere
batton le mani.
Far finta di essere sani.
Far finta di essere sani.
Far finta di essere sani.

GIORGIO GABER

Filo

Cuore
mio
devo riprendere
a tessere
ritrovare le fila
di passeggiate
tra noi
dentro
una tazza caffè
immaginare la tela
radiosa del futuro
ed essere
così virtuosa
da non aspettare più
nessun
Ulisse
piuttosto imparare
tutte
le lingue del mondo
per gridare il mio
dolore
fino in fondo
e poi
risalire come da un pozzo
verso la vita che
è il pane da comprare
ed il
latte fresco perchè alle femmine va bene
e la ginestra da baciare di
gocce dolci
quelle del pianto di sera
e sbattere sabbia dai tappeti
quella del deserto dentro.

Forse viene fuori
dal nostro dirci dentro
un abito
da sposa?
E Maria rispose

Cuore nel mio cuore
che mi sei
entrata
dentro
come se t’avessi conosciuto
in altre vite
io vorrei
unire il mio
al tuo dolore perchè
nonostante il tempo
che passa
non si
placa un
minuto
forse è questo mettere in fila
parole
che passano dal
cuore alla
testa alle mani
che ci unisce più del sangue
più del ventre
più delle
mani se fossimo vicine
io non lo so ma vorrei
il tuo dolore
per farne
pane
a sfamare
acqua a dissetare
per dare un senso
al fiore e
alle api
a figli voluti a quelli negati
alla vita come alla morte
per
continuare
a vivere
senza farmi altro male

Tinti e Maria

Viandare sui poggi

dove satura la ginestra
esplode nel giallo.
Cipressi in fila
guardiani delle vigne
del tremulo papavero
sul ciglio.
S’apre la valle
in conca di colori
nell’azzurrino
degradar dei monti.
Nell’aria palpiti
profumi
e in questa vastità
sublime è l’anima.

Graziella Cappelli

Dove sei…?


Dove sei
i miei occhi non riconoscono i tuoi colori
le mie mani un tempo prensili
ora sono di neve,
dove sei
sopra la mia vita c’è il sole
ma non riscalda non illumina
sembra la predica di un prete
la domenica,
buona per pochi minuti di devozione
e poi di nuovo fuori
nell’abisso dell’orrore,
insieme a gente che si mette in fila con me
regge sulle spalle la fatica
che rinnova la sua, gente che sale
e scende scale e sbaglia stazione
e mette le mani dove vuole
e non si commuove
e non mi commuove
e tu dove sei.
Io ho orecchie che sentono falsi suoni
mi invitano a feste ma non ho più compleanni,
se ti muovi a scatti è difficile che ti prenda,
se mi mandi fiori è possibile che non ne sappia i nomi,
dove sei.
Guardo sempre sulle fermate dei Bus
di auto tue non ne servono al traffico
al brusio delle api
davamo più ascolto
ma era altro tempo,
era altra vita, adesso mi scrivo i discorsi da farti
e sbaglio tutte le parole,
forse per quello che vorrei dirti nemmeno esistono
ma almeno chiederti, dove sei?

Maria Attanasio

Amico fragile

Evaporato in una nuvola rossa

in una delle molte feritoie della notte

con un bisogno d’attenzione e d’amore

troppo, “Se mi vuoi bene piangi ”

per essere corrisposti,

valeva la pena divertirvi le serate estive

con un semplicissimo “Mi ricordo”:

per osservarvi affittare un chilo d’erbba

ai contadini in pensione e alle loro donne

e regalare a piene mani oceani

ed altre ed altre onde ai marinai in servizio,

fino a scoprire ad uno ad uno i vostri nascondigli

senza rimpiangere la mia credulità:

perché già dalla prima trincea

ero più curioso di voi,

ero molto più curioso di voi.

E poi sorpreso dai vostri “Come sta”

meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci,

tipo “Come ti senti amico, amico fragile,

se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te”

“Lo sa che io ho perduto due figli”

“Signora lei è una donna piuttosto distratta.”

E ancora ucciso dalla vostra cortesia

nell’ora in cui un mio sogno

ballerina di seconda fila,

agitava per chissà quale avvenire

il suo presente di seni enormi

e il suo cesareo fresco,

pensavo è bello che dove finiscono le mie dita

debba in qualche modo incominciare una chitarra.

E poi seduto in mezzo ai vostri arrivederci,

mi sentivo meno stanco di voi

ero molto meno stanco di voi.

Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta

fino a farle spalancarsi la bocca.

Potevo chiedere ad uno qualunque dei miei figli

di parlare ancora male e ad alta voce di me.

Potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo

con una scatola di legno che dicesse perderemo.

Potevo chiedere come si chiama il vostro cane

Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero.

Potevo assumere un cannibale al giorno

per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle.

Potevo attraversare litri e litri di corallo

per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci.

E mai che mi sia venuto in mente,

di essere più ubriaco di voi

di essere molto più ubriaco di voi.

FABRIZIO DE ANDRÉ


Tirando le somme

Avrei voluto comprendere
una finestra più in là
oltre a quel cortile
di passi anonimi
e “buongiorno” bisbigliati
dell’anziana vicina
che stende sorrisi
e coperte colorate
O un naso più in giù
in fila con le formiche
ai piedi delle verdi pareti ,
mossi dalla brezza
[l’erba dei prati in primavera ]
e di rugiada .
Se avessi potuto, ora avrei
nei capelli
un catino di luna rovesciato
e nelle tasche
qualche centesimo
di certezza in più.

Anileda Xeka

Stati d’animo

Scalda l’amor come incendio infocato,
nulla è più eterno dell’aver amato.

La solitudine la bocca cuce,
prende per mano e lontano conduce.

Malinconia, frignona, struggente,
piange i ricordi ed ignora la gente.

Gioia negli occhi, gioia dentro, intorno.
Due fila di denti ridono al giorno.

Vuoto esteso ovunque, dappertutto,
negli occhi serrati lo sguardo a lutto.

Rabbia che irrompe con furia s’accende,
fuoco che brucia, che avvampa e offende.

Pace che plana, a larghi giri, lenta,
che tutto avvolge come una placenta.

L’odio corrode consuma atterrisce,
l’odio devasta offende ferisce.

L’indifferenza gela la parola
tacitamente come un groppo in gola.

E l’inquietudine, sai come morde?
Mormora invano a mille voci sorde.

Silvano Conti

Al Dio d’amore


Dio d’Amore non ti mancò
sangue né carne, ora
non dare più figli al mondo,
taci di notte ma di giorno grida
tutto il dolore
ché le piaghe son tante
e gli occhi appicccicosi, pieni di mosche
fa’ che non li debba più vedere
nessun uomo,
su un altro uomo.
Dio d’Amore
non ti mancarono guerre
né vite in dono, sacrificate
al tuo nome,
fa che non debba più vedere
corpi scheletrici in fila per un tozzo di pane,
o vite stroncate fatte a pezzi
e mai riconosciute,
fa’ che non debba vedere gente migrare
verso altri fuochi da chiamare case,
fa’ che questi occhi che si avviano verso la fine
di ogni umana comprensione,
non debbano più vedere
vite di donne feti o bambini
perdute e consumate,
fa’ che non debba più vergognarmi
dell’egoismo dell’uomo sull’uomo,
io così umana da morire
e voler ritornare alla polvere
come all’inizio di ogni storia,
feto femmina animale e uomo
a futura memoria.

Maria Attanasio

Schieramenti

il mio dolore ha tasche bucate
non si contiene
talmente è forte
rosicchia da lontananze
come vecchie carcasse
venute ad ammuffire
tra la mia carne
fiacca e deceduta

si perdono i miei muscoli
tra le pieghe impoverite
di refresh senza ritorno
cedevoli
all’ago che entra a vuoto
e il sangue non fluisce
come ai tempi d’oro
stanco s’appiattisce
nelle arterie desolate

globuli impazziti si armano
di rivitalizzanti
tenendosi per mano
sfidano il tracollo
e dirottano l’uscita
– che sia la volta buona?-

intanto in fila, incolonnate
procedono per vie traverse
cellule ambite da nuova speranza
cieca per me
se poi precipita nell’immagine
migliore
che non sa riconoscere.

Beatrice Zanini