Le stagioni umane

THE HUMAN SEASONS

Four Seasons fill the measure of the year;
There are four seasons in the mind of man:
He has his lusty Spring, when fancy clear
Takes in all beauty with an easy span:
He has his Summer, when luxuriously
Spring’s honey’d cud of youthful thought he loves
To ruminate, and by such dreaming high
Is nearest unto heaven: quiet coves
His soul has in its Autumn, when his wings
He furleth close; contented so to look
On mists in idleness—to let fair things
Pass by unheeded as a threshold brook.
He has his Winter too of pale misfeature,
Or else he would forego his mortal nature.

§

Quattro stagioni fanno intero l’anno,
quattro stagioni ha l’animo dell’uomo.
Egli ha la sua robusta Primavera
quando coglie l’ingenua fantasia
ad aprire di mano ogni bellezza;

ha la sua Estate quando ruminare
il boccone di miel primaverile
del giovine pensiero ama perduto
di voluttà, e così fantasticando,
quanto gli è dato approssimarsi al cielo;

e calmi ormeggi in rada ha nel suo Autunno
quando ripiega strettamente le ali
pago di star così a contemplare
oziando le nebbie, di lasciare
le cose belle inavvertite lungi
passare come sulla soglia un rivo.

Anche ha il suo Inverno di sfiguramento
pallido, sennò forza gli sarebbe
rinunciare alla sua mortal natura.

JOHN KEATS

La tua Musa

A volte
la scorgi giacere lieve
in versi senza vita,
o crepitare
in algida assenza
dagli ovunque
a cui t’ispiri.
Altre,
l’avvisti
a distanza stonare
mollando gli ormeggi
dal mare delle tue cose.

Lei salpa
dal pianto d’un calamaio
per la sua china appassita,
da quello d’una penna d’oca
per il pugno che non l’intinse,
dall’eco che non ritorna
della tua ispirazione.

E cerchi altrove
una risposta
che nutra la vena di poesia,
la stessa
che ti si accosta compiaciuta
felpata come donna
ad appagarsi nel tuo letto,
scivolando via
col dolore nei versi
che non sai più cantarle,
lussuriosa ormai d’altri lidi
che il tuo è deserto.

Daniela Procida

Libertà

Ho ravvisato la tua immagine
arroccata da un muro di vetro,
ho martellato coi pugni di rabbia
le bitte, il timone, gli ormeggi,
per poterti afferrare,
ho strappato la pelle alla terra
inzuppata di cocci di vetro,
ho inalveato il mio fiume
verso il tuo letto
per confondere le nostre acque,
ho bruschinato le ingiurie del peso
come crespe sulla mia fronte
con la spazzola delle illusioni
per condurti alla quintessenza,
ho cecato gli occhi del giorno
per nascondere il buio del cuore,
ho coltivato nel libro dei sogni
cristalli di stelle
per regalarli ai tuoi occhi,
ho investito le suole dei piedi
per deserti, per nuvole e mari,
ho contato gli occhi, buttati
come sassi sulla mia pelle,
ho consumato tutti i pensieri…
ma sono arrivato troppo presto
quando non eri ancora nata
perciò non ho potuto abbracciarti.

Giuseppe Stracuzzi