Biglietto da visita

Mai vi direi del mio male nella bocca
del sangue che ha sapore del ferro
quando m’alzo, e sporco il lavandino
di gocce calde e scure.
Vi direi mai d’otto peli grigi al mento
del tonfo di campane a noleggio nella pancia;
la cena un po’ indigesta
c’è tutto da lavare.
Vi direi mai del rumore dei vicini
le loro grida idiote ad un gol; quell’abbaiare
che fanno i cani troppo nutriti e un po’ annoiati.
Del mio ginocchio soldo bucato
delle tasche, dove ho perduto cose da ricordare.
E gli occhi
dell’impiegata in cerca di supplica, nei miei.
Occhi che han preso gli insulti, forse botte;
che han fatto solo ieri l’amore
ma era niente. Un viaggio su una strada bagnata
senza scarpe.

Massimo Botturi

Kavaja

Kavaja ha finestre affacciate sull’Adriatico
Davanzali di gerani, con mani in attesa
Vicini di casa con Bari, sono, li senti parlare a volte
O li vedi, a prendere un caffè nella veranda del mare

Avviene quasi sempre nelle belle notti d’estate
In cui le tarde ore ci trovano ancora fuori
A contemplare il cielo, i boschi fitti dei pini
Pilastri illuminati dal chiarore argenteo

Ha un suono mistico il suo silenzio
Le sue piccole case dalle rosse tegole
Le sue strade, spoglie da notturni rumori
Da vani luccichii e vanità giovanili

Due bianche dita al cielo si volgono
L’uno libertà, democrazia l’altro
Inciso di sangue in ogni soglia e pietra
Echeggiano orgogliosi in ogni cuore di Kavaja

Kavaja dalla rughe sul volto
Dalle mille sofferenze che ti squarciano l’anima
Nelle polveri di burocrazie, sepolta
Dalle sorgenti in secca, Kavaja assetata

Kavaja è donna di casa, dal capo coperto
Dalle lunghe vesti o minigonne e tacchi a spillo
Che orma non lasciano sul marciapiede
Ove giovani ragazzi,  fuori dalle botteghe, attendono

Kavaja dalla generosità di bellezza autentica
Tempio d’armonia e rispetto, t’accoglierà in ugual modo
Che tu sia uno che prega Allah, nell’antica moschea
O candele accendi, dinnanzi ad una croce, nella giovane chiesa

Kavaja terra del grano, del granturco e degli
Insonni poeti, che tessono versi per belle fanciulle
Kavaja dalle timide e sognanti palpebre
L’epicentro del mio cuore e dei miei pensieri

Anileda Xeka

Appassionata


D’estate fuori al balcone
seduta ai piedi di mia madre
un caldo oleoso mi attraversava
come il rumore delle Vespe giù in strada
e la televisione invadente dei vicini,
il sonno arrivava piano piano
insinuandosi tra le pieghe della giornata
ma io non cedevo, non potevo perdere
nemmeno un istante
di quel giorno che era stato mio,
del lento parlare di mia madre,
nemmeno il silenzio che allora non sapevo pesante
delle cose non dette, silenzio, cose, tempo, giorni, volevo perdere.
Allora non lo sapevo
che il tempo scorre lento solo a giorni
che sono veloci gli anni
soprattutto quelli che non ti senti addosso
o fingi di aver smesso
come vestiti ormai vecchi.
Io pensavo alla mia vita
come un cerchio già chiuso
con me seduta ai piedi di mia madre
in quell’istante  che era il mio “sempre”
tutta la mia gioia tutto il mio dolore
di un futuro che non sapevo immaginare
appassionata com’ero delle parole
che mi crescevano dentro ma poi non sapevo dire.

Maria Attanasio