Ci sono porti intravisti dal mare e città sorvolate di fretta dove arriva il tuo viaggio distratto Bologna invece ti abbraccia è visione emersa dal cuore che sale da bassa pianura e rossa di terra e di umore innalza il tuo sguardo e due dita a indicarti il suo cielo Mi ricordo ero giovane un giorno dei giorni padrone e dei sogni Un sogno era là a portata di mano ed io giocavo a pensarmi una vita scegliendola nuova e diversa nel grembo di madre benevola e opìma scrigno turrito di amore e buon tempo aperto al mondo e a tutte le strade Ma gli anni passano e i sogni invecchiano chissà mai se una Dotta insegnante uno sbaglio di troppo mi avrebbe evitato? Ora che imbianco vorrei chiederlo a lei ma la trovo nebbiosa e distante E’ una donna violata e percossa la bella che perse un dì l’innocenza tra un nero di sangue e di macchine bianche e più allegra non danza sull’aia ormai tutta sommersa di “neve” Ma io con giovani occhi la guardo come fanno in eterno gli amanti e mi immagino scendere un giorno sul sagrato di quella stazione: ad accogliermi vedo già i musici cantastorie sapienti e poeti che il mio tempo hanno allietato Loro sì che il mestiere conoscono di scacciare quei neri fantasmi e tra un sorso un accordo e un sorriso torneranno a narrarmi gioiosa di Bologna la sua favola antica.
Si proprio tu… amico dico
a te
ricordi?
le dicevi che era la tua bambina
facevate capriole la mattina a colazione
accendevi per lei la lampada
le confessavi all’orecchio che eri Aladino…
le sprimacciavi il cuscino
dolcemente le dicevi -sei il mio fiore!-
avevi quel tuo sorriso strano d’incantatore
pareva amore
Come un giocattolo sulle tue ginocchia
era stella cadente
la carezzavi con le tue mani d’ortiche
/lei non riusciva a piangere/
ascoltava la favola dell’orco
/lei non riusciva a ridere/
Era cambiata, non capiva perché
ogni volta che sgattaiolava da te
s’attorcigliava con gli arti nudi
in quella piccola stanza
lontana
dall’ anomalia
da quella tua pazzia.
Am pèr d’èser int na fôlaquand té t cói un sasulénsó d’in tèra, dòna bèla:in ste månd ed birichéntgnîr in man un sasulénl’è cme avair ciapé una strèla!
§
Mi par d’essere in una favolaquando cogli un sassolinosu da terra, o donna bella:in questo mondo di birichinitenere in mano un sassolinoè come aver acchiappato una stella!
Certo che il giorno delle ninnenanne appartiene alle madri ed anche al mare si cullano le anime dei tanti resinose le zattere
racconta nella sera che fu ieri la favola dei porti mai raggiunti né le braccia accoglienti e il seno e il latte potevano tradirsi e farsi vele
c’è un viavai di pietrisco non ancora del tutto massicciata andare di fuggitive assenze calzando i propri piedi
le nenie dei notturni incantamenti quando non hanno sottofondi quando la stonatura in gola arresta il pianto madremia madremia chi si sofferma a pronunciarmi ancora? avere un nome che non sia in disuso un nomignolo forse me lo diedi da sola. Ma cos’è questa voglia di sentirmi piccola? mi strania, mi sovverte è un affronto alla vita che ho vissuto e che mi ha fatto questa.
pregunta la elegía
de quienes ya no son, como si hubiera
una región en que el Ayer pudiera
ser el Hoy, el Aún y el Todavía.
¿Dónde estará (repito) el malevaje
que fundó en polvorientos callejones
de tierra o en perdidas poblaciones
la secta del cuchillo y del coraje?
¿Dónde estarán aquellos que pasaron,
dejando a la epopeya un episodio,
una fábula al tiempo, y que sin odio,
lucro o pasión de amor se acuchillaron?
Los busco en su legenda, en la postrera
brasa que, a modo de una vaga rosa,
guarda algo de esa chusma valerosa
de los Corrales y de Balvanera.
¿Qué oscuros callejones o qué yermo
del otro mundo habitará la dura
sombra de aquel que era una sombra oscura,
Muraña, ese cuchillo de Palermo?
¿Y ese Iberra fatal (de quien los santos
se apiaden) que en un puente de la vía,
mató a su hermano el Ñato, que debía
más muertes que él, y así igualó los tantos?
Una mitología de puñales
lentamente se anula en el olvido;
una canción de gesta se ha perdido
en sórdidas noticias policiales.
Hay otra brasa, otra candente rosa
de la ceniza que los guarda enteros;
ahí están los soberbios cuchilleros
y el peso de la daga silenciosa.
Aunque la daga hostil o esa otra daga,
el tiempo, los perdieron en el fango,
hoy, más allá del tiempo y de la aciaga
muerte, esos muertos viven en el tango.
En la música están, en el cordaje
de la terca guitarra trabajosa,
que trama en la milonga venturosa
la fiesta y la inocencia del coraje.
Gira en el hueco la amarilla rueda
de caballos y leones, y oigo el eco
de esos tangos de Arolas y de Greco
que yo he visto bailar en la vereda,
en un instante que hoy emerge aislado,
sin antes ni después, contra el olvido,
y que tiene el sabor de lo perdido,
de lo perdido y lo recuperado.
En los acordes hay antiguas cosas:
el otro patio y la entrevista parra.
(Detrás de las paredes recelosas
el Sur guarda un puñal y una guitarra).
Esa ráfaga, el tango, esa diablura,
los atareados años desafía;
hecho de polvo y tiempo, el hombre dura
menos que la liviana melodía,
que sólo es tiempo. El tango crea un turbio
pasado irreal que de algùn modo es cierto,
el recuerdo imposible de haber muerto
peleando, en una esquina del suburbio.
§
Dove saranno? Chiede l’elegia
di quelli che oramai non sono più,
come esistesse un luogo dove l’Ieri
possa esser l’Oggi, l’esser Ancora, il Sempre.
Dove sarà (ripeto) la teppaglia
che in polverosi vicoli sterrati
o in perduti villaggi istituì
la setta del coltello e del coraggio?
Dove saranno quelli che passarono
lasciando all’epopea un episodio,
una favola al tempo, e si affrontarono
al coltello, senz’odio o ardore o lucro?
Nella leggenda li cerco, nell’ultima
brace che serba, come vaga rosa,
qualcosa dell’intrepida canaglia
che stava a Balvanera o ai Corrales.
Quale deserto, quali oscuri vicoli
dell’altro mondo abiterà la dura
ombra di chi era già un’ombra oscura,
di Muraña, coltello di Palermo?
E quel fatale Iberra (i santi ne abbiano
pietà) che su di un ponte uccise il Ñato,
suo fratello, che morti ne doveva
più di lui, e così furono pari?
Una mitologia di pugnali
lentamente si annulla nell’oblio;
una canzon di gesta è andata persa
in sordide notizie poliziesche.
C’è un’altra brace, un’altra ardente rosa
di quella cenere che li conserva;
lì sta la gente altera del coltello,
lì il peso della daga silenziosa.
Benché la daga ostile o l’altra daga,
il tempo, li dissolsero nel fango,
oggi, al di là del tempo e dell’infausta
morte, quei morti vivono nel tango.
Vivono nelle corde e nella musica
della tenace chitarra operosa
che concerta in milonghe fortunate
la festa e l’innocenza del coraggio.
Gira la gialla ruota della giostra
di cavalli e leoni e mi raggiunge
l’eco dei tanghi di Greco e di Arolas
che vidi un tempo danzare per strada,
in un istante che affiora isolato,
senza prima né poi, contro l’oblio,
e ha il sapore di quel che abbiamo perso,
che abbiamo perso e a un tratto ritrovato.
Vi sono cose antiche in quegli accordi,
la pergola intravista, l’altro patio.
(Dietro, i suoi muri sospettosi il sud
ha in serbo una chitarra e un pugnale).
Quest’incantesimo, questa ventata,
il tango, sfida gli anni affaccendati;
di polvere e di tempo, l’uomo dura
meno della leggera melodia,
che è solo tempo. Il tango crea un torbido
passato ch’è irreale e in parte vero,
un assurdo ricordo d’esser morto
in duello, a un cantone del sobborgo.
Libellule posate sul cielo
a balzi invadono i tu-tu delle tortore
mentre noi
bambine a boccuccia di rosa coltiviamo arancini di riso.
Codini di seta e farfalle, splendiamo in un giorno d’aprile
allegra l’altalena del sole
amico del giorno che dondola
siamo appaiate e vicine
con occhi mai stanchi, spettacoli vaganti
sentiamo il treno che fischia
al parco divertimenti, sulla giostra dei cavalli
schioccano rossori di gote che trasformano l’aria
e i palloncini delle tue piccole mani mi afferrano dentro una favola!
Dove a bacìo dell’angiporto
stagna l’acqua di rigagnoli
vedo dislocate increspature,
gocciola dai sostrati un filamento,
lacera il cuore…
vedo una bambina dissacrata
con gli occhi grandi
al velo della stura
che ricetta la favola stravolta
sulle rive dell’alba senza giorno
dove sfociano gli urli della sera.
Vedo una donna laida sformata
che stringe il gioco
alla profusa gruma
biascicando foglie masticate
e stralci guitti di disinvolture…
e vedo tra i mattoni scalcinati
la faccia dell’intonaco guarnita.
Quando scrivo poesia
non vivo la realtà
sono i miei sogni e le mie speranze
che hanno il sopravvento
allora mi affaccio alla finestra
e mi osservo
Dalla penombra della mia vita
mi piace curiosare
nella mia anima
per scrivere momenti felici
e malinconie d’amore
Mi è dolce sognare
trovare l’incontro che non c’è
provare il piacere che sento
e che è vivo in me
e poi trovare il risveglio brusco
di un sogno solo sognato.
La mia mente feconda
talvolta adombrata
da ossessioni diventa fardello
nel mio scrivere
Dalla mia finestra
in fondo alla stanza
la vedo adagiata
sul tavolo dell’amore
dolcissimo desiderio
entrato nei miei sogni
è mia regina
ed insieme invento una nostra favola.
Fantasie ricamo
faccio danzare in atmosfere fragili
i ricordi di lei
che svaniscono all’apparire della luce
e mi rimane soltanto il sapore di un sogno
del quale non posso neppure
avere rimpianto.
Questo mi accade quando
scrivo poesia.