Magna Grecia e dintorni

 
Il Pollino imbiancato
innanzi mi compare.
Su un arido terreno,
contorti come ulivi,
quei pini loricati
profumano già l’aria.
E querce e faggi e cerri
compongon boschi eterni.
.
Vestigia d’un maniero,
a coronar la cresta,
 sovrastano la strada.
La nebbia che m’avvolge
 dissolve selve e prati.
Corro una galleria,
cerco la luce in fondo,
neve e rifugio trovo.
.
Poi verso sud m’appresso.
Svelta la strada scorre
tra forre e casolari
di quell’antica Sila,
prospera di foreste,
da valli lacerata.
 Delle megar le timpe
comprendo il loro arcano.
.
 L’ampio respir del mare
un tuffo al cuor mi dona:
Falerna v’è distesa
e il nome a lei deriva
da quella dolce ambrosia
che consolò Pilato
quando emanò, perplesso,
all’unto ostil sentenza
.
Quell’acque basse e chiare
risplendono di raggi,
 e rendon sfumature
d’ogni color turchese.
Scintilla all’orizzonte
la vela d’una barca
e gridano i  gabbiani,
dal vento sostenuti.
.
Si snoda poi la riva
fino alla Costa Viola,
con Pizzo a quell’estremo
che domina quel lido.
Scendendo l’erta china,
ad ogni suo tornante,
precipitar mi sembra
in quel lucente mare.
.
E’ qui che Gioacchino,
di Napoli re breve
e condottier valente,
da Ferdinando quarto
fu vinto e condannato.
Murat, borbon spregiando,
in un comando estremo
volle il ploton guidare.
.
Volare su quel mare,
correndo su quei ponti,
m’inebria la ragione
e di stupore colma.
Così, lontana, arriva
Scilla  col suo castello.
Innanzi a lei Cariddi,
col suo proteso artiglio.
.
In quell’acque cobalto
Ulisse spiar volle
quelle, che un tempo ninfe,
la gelosia di Circe
in mostri trasformò.
Perciò si fè legare,
 con cera nelle orecchie,
per ingannar sirene.
.
In Reggio alfin riposo.
Le voci di mercanti
ridestan la città.
 E’ come un dolce canto
“A ‘stura v’arrifrisca”.
Panieri giù calati,
ossequio al nuovo giorno,
colgono fichi e gelsi.
.
Da strade strette e scure,
tra voci concitate
e clacson impazziti,
all’improvviso appare
del duomo la gran luce.
Romanico si sposa
con gotico ispirato.
Risplende il suo candore.
.
Ed eccomi al museo.
Fu forse Policleto
oppure il sommo Fidia
che i bronzi un dì crearon ?
Svettanti in una sala,
dal mar guerrier risorti,
benignamente guardano
folle da tutt’il mondo.
.
Quel lungomar ch’è sogno,
percorro un po’ stordito
e nelle ville ammiro
del liberty il retaggio.
Trinacria ora mi chiama.
Il ventre d’una nave,
all’urbe, un tempo felix,
doman mi condurrà.
.
E lascio la Calabria
con nostalgia nel cuore,
terra dimenticata
da tutti i governanti.
Nessuno più ricorda
di Campanella il libro,
nè Repaci od Alvaro.
Da ‘ndrangheta avvilita.

Piero Colonna Romano

 “Pino loricato”: è una conifera, non autoctona ma importata dalla Spagna, presente soltanto in Basilicata. Cresce su terreni di tipo carsico, normalmente in cima ad una montagnola. Albero basso (3, 4 metri) ha l’aspetto contorto dell’ulivo, rami penduli e corteccia particolarmente dura. “Delle megar le timpe”: la Sila è solcata da numerosi valloni che corrono perpendicolarmente all’autostrada. Timpa = vallone, megara = maga, strega. Sull’A3 un cartello avverte che stiamo passando accanto alla “Timpa delle megare”. “A ‘stura v’arrifrisca”: significa “a quest’ora vi rinfrescano” ed è il canto col quale, in ore molto vicine al sorgere del giorno, gli ambulanti offrono gelsi bianchi e fichi. Dai balconi scendono i panieri con dentro i soldi per l’acquisto. E’ un mio ricordo palermitano dell’immediato dopoguerra, e l’ho risentito a Reggio qualche anno fa. “Vos et ipsam civitatem benedicimus”: è la scritta incisa ai piedi d’una stele, al vertice della quale è posta la statua d’una madonna, all’ingresso del porto di Messina. E’ un saluto a tutti i viaggiatori ed un segnale di fratellanza.

No non aggiungerò

No non aggiungerò nuova legna
al fuoco lasciamo
che la legna che già c’è si consumi
a poco a poco
che la vampa si trasformi a poco a
poco in brace
ed io e te zitti – seduti
uno a fianco dell’altro – dal fondo
buio della sala a guardare
spegnersi finalmente anche
quella.

GIORGIO BASSANI

Published in: on gennaio 14, 2012 at 07:33  Comments (5)  
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Di vita e…

Forse quand’ io
avrò capito e
quando questo rumore
sarà esausto
tornerò nel silenzio
ove non sarà gesto a
scatenar brusio e
ogni umano affanno
sarà placato. Un
mondo nuovo o anche
il nulla in cui errare
vuoto di questioni, silente
di finita incertezza, sarà
la medesima cosa, una
porta da un breve sentiero
puntellato di lucciole fioche
terminante nella sala radiosa,
nell’ immobile danza della
assoluta certezza. Voi che forse
non sperate questo, fatelo per me,
poichè non importa la durata
del nostro incespicare, ma che un
giorno, finalmente, poss’ io esser preso in braccio.

Gian Luca Sechi

Se devo vivere senza di te

SI HE DE VIVIR SIN TI

Si he de vivir sin ti, que sea duro y cruento
la sopa fría, los zapatos rotos, o que en mitad de la opulencia
se alce la rama seca de la tos, ladrándome
tu nombre deformado, las vocales de la espuma, y en los dedos
se me peguen las sábanas, y nada me dé paz.
No aprenderé por eso a quererte mejor
pero desalojado de la felicidad
sabré cuanta me dabas con solamente a veces estar cerca.
Esto creo entenderlo, pero me engaño:
hará falta la escarcha del dintel
para que el guarecido en el portal comprenda
la luz del comedor, los manteles de leche, y el aroma
del pan que pasa su morena mano por la hendija.
Tan lejos ya de ti
como un ojo del otro,
de esta asumida adversidad
nacerá la mirada que por fin te merezca…

 §

Se devo vivere senza di te, che sia duro e cruento,

la minestra fredda, le scarpe rotte, o che a metà dell’opulenza

si alzi il secco ramo della tosse, che latra

il tuo nome deformato, le vocali di spuma, e nelle dita

mi si incollino le lenzuola, e niente mi dia pace.

Non imparerò per questo a meglio amarti,

però sloggiato dalla felicità

saprò quanta me ne davi a volte soltanto standomi nei pressi.

Questo voglio capirlo, ma mi inganno:

sarà necessaria la brina dell’architrave

perché colui che si ripari sotto il portale comprenda

la luce della sala da pranzo, le tovaglie di latte, e l’aroma

dl pane che passa la sua mano bruna per la fessura.

Tanto lontano ormai da te

come un occhio dall’altro,

da questa avversità che assumo nascerà adesso

lo sguardo che alla fine ti meriti.

JULIO CORTÀZAR

La maliziosa

LA MALINE

Dans la salle à manger brune, que parfumait
Une odeur de vernis et de fruits, à mon aise
Je ramassais un plat de je ne sais quel mets
Belge, et je m’épatais dans mon immense chaise.

En mangeant, j’écoutais l’horloge, – heureux et coi.
La cuisine s’ouvrit avec une bouffée,
Et la servante vint, je ne sais pas pourquoi,
Fichu moitié défait, malinement coiffée

Et, tout en promenant son petit doigt tremblant
Sur sa joue, un velours de pêche rose et blanc,
En faisant, de sa lèvre enfantine, une moue,

Elle arrangeait les plats, près de moi, pour m’aiser ;
– Puis, comme ça, – bien sûr pour avoir un baiser, –
Tout bas : “Sens donc, j’ai pris une froid sur la joue…”

§

Nella sala da pranzo bruna, profumata
D’un sentore di frutta e di vernice, prendo
Comodamente un piatto di non so qual pietanza
Belga, e mi lascio andare dentro alla sedia immensa.

Mangiando, lieto e calmo, ascolto l’orologio.
Si apre con un colpo di vento la cucina,
– Ed ecco venire, chissà perché, la serva,
Spettinata con arte, scialle sfatto,

E con ditino incerto sfiorandosi una guancia,
Velluto biancorosa di pesca, e atteggiando
A smorfia quella sua bocca infantile,

Per meglio accomodarmi dispone intorno i piatti;
– E poi, così, – ma si, voleva un bacio,-
Pian piano: “Senti, dice, ho una freddo alla guancia…”

ARTHUR RIMBAUD

Sento i tuoi passi nella sala

Sento i  tuoi passi nella sala,

sento in ogni nervo i tuoi rapidi passi

che nessuno nota altrimenti.

Intorno a me soffia un vento di fuoco.

Sento i tuoi passi, i tuoi amati passi,

e l’anima fa male.

Cammini lontano nella sala,

ma l’aria ondeggia dei tuoi passi

e canta come canta il mare.

Ascolto, prigioniera dell’oppressione che consuma.

Nel ritmo del tuo ritmo, nel tempo del tuo tempo

batte il mio polso nella fame.

KARIN MARIA BOYE

Published in: on aprile 18, 2011 at 07:13  Comments (3)  
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Scuote gli alberi il vento d’autunno

Der Herbstwind rüttelt die Bäume,

Die Nacht ist feucht und kalt;

Gehüllt im grauen Mantel

Reite ich einsam, einsam im Wald.

Und wie ich reite, so reiten

Mir die Gedanken voraus;

Sie tragen mich leicht und luftig

Nach meiner Liebsten Haus.

Die Hunde bellen, die Diener

Erscheinen mit Kerzengeflirr;

Die Wendeltreppe stürm’ ich

Hinauf mit Sporengeklirr.

Im leuchtenden Teppich gemache,

Da ist es so duftig und warm,

Da harret meiner die Holde,

Ich fliege in ihren Arm!

Es säuselt der Wind in den Blättern,

Es spricht der Eichenbaum:

«Was willst Du, törichter Reiter,

Mit Deinem törichten Traum?»

§

Scuote gli alberi il vento d’autunno,

nella notte umida e gelida;

avvolto nel mio grigio mantello,

cavalco tutto solo nel bosco.

Mentre cavalco, io vedo in frotta

cavalcare con me i miei pensieri;

come il vento mi portan leggeri

a casa della mia diletta.

I cani abbaiano e la servitù

accorre con le fiaccole in mano;

salgo con furia su per le scale

facendo risuonar gli speroni.

La sala splendida degli arazzi,

è pervasa di aromi e calore,

lì m’attende il dolce mio amore…

mi precipito tra le sue braccia.

Il vento mormora tra ‘l fogliame,

e si sente la quercia parlare:

<< Cosa vuoi, folle cavaliere,

con questo tuo folle sognare ?>>

HEINRICH HEINE

Il vestito


Appenderò al chiodo dei ricordi
anche quest’abito ormai dismesso.
Mi ha vestito nell’età che passa
e ora, tanto consunto quanto lindo,
io non lo butterò nel cassonetto.

Non lo regalerò a quel barbone
del terzo ingresso del supermercato,
neanche alla donna dai capelli neri
seduta il martedì fianco alla chiesa
e non perché avaro io sia diventato.
E’ cosa mia, è cosa del mio cuore
e un dì potrei rimetterlo di nuovo.
Fosse così, riacquisterei gli odori
di tutti i giorni appena consumati,
delle mie carni ahimè modificate
dall’avanzare del bastardo tempo.
Intanto, nella sala mi rivesto
d’uguale taglia ed ugual modello
con due tre ghirigori in meno
per lasciar spazio al vivere concreto.

E tasche…
tasche grandi quanto basta
per fare accumulo del mio futuro.

Aurelio Zucchi

Il gelsomino notturno

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso a’ miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.
Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento . . .
È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

GIOVANNI PASCOLI